Malattia di Parkinson, imparare a riconoscerla e a curarla


Parkinson: una malattia degenerativa che colpisce soprattutto in età avanzata e, in Italia, interessa circa 250mila persone. «Farmaci e nuove terapie possono contribuire a migliorare in modo sensibile la qualità di vita del paziente», spiega il professor Leonardo Lopiano, neurologo della Clinica Fornaca. «Quella di Parkinson è una malattia degenerativa che in Italia colpisce circa […]

Parkinson: una malattia degenerativa che colpisce soprattutto in età avanzata e, in Italia, interessa circa 250mila persone. «Farmaci e nuove terapie possono contribuire a migliorare in modo sensibile la qualità di vita del paziente», spiega il professor Leonardo Lopiano, neurologo della Clinica Fornaca.

«Quella di Parkinson è una malattia degenerativa che in Italia colpisce circa 250mila persone, si manifesta soprattutto in età avanzata ma nel 10-15 per cento dei casi realizza un esordio precoce in pazienti di età inferiore ai 50 o persino ai 40 anni. E’ una malattia in rari casi genetica, più spesso sporadica e dovuta a cause ancora ignote che, così come per altre patologie degenerative, possiamo attribuire a una complessa interazione tra fattori di predisposizione genetica, fattori metabolici e, forse, ambientali che possono favorirne lo sviluppo».

Il professor Leonardo Lopiano, neurologo della Clinica Fornaca, responsabile di Neurologia 2 del Dipartimento di Neuroscienze e Salute mentale della Città della Salute e della Scienza di Torino, studia la malattia di Parkinson da molti anni ed è tra i principali conoscitori delle moderne ed efficaci terapie rivolte ai pazienti in fase avanzata.

Professor Lopiano, quali sono i sintomi principali della malattia di Parkinson?

«E’ una malattia che si caratterizza innanzitutto per i sintomi motori cardinali. In particolare, la bradicinesia, rallentamento del movimento che può condurre fino all’acinesia, assenza di movimento, ma anche il tremore a riposo e la rigidità muscolare. Sono i tre sintomi che compaiono dopo la degenerazione selettiva di una piccola regione del cervello che si trova nel mesencefalo e che ospita particolari neuroni incaricati di produrre la dopamina. La carenza di dopamina in questa area del cervello, fondamentale per la corretta esecuzione del movimento, fa venire fuori i sintomi parkinsoniani».

E’ proprio in quei neuroni che origina la malattia?

«In realtà negli ultimi anni s’è visto che molto probabilmente la malattia di Parkinson può cominciare, anche diversi anni prima, in altre aree che vengono precocemente alterate e che riguardano sintomi non motori: disturbi dell’affettività (depressione), funzioni autonomiche (stipsi), regioni responsabili dell’olfatto o legate al sonno. Si tratta di sintomi prodromici che possono precedere anche di dieci anni quelli motori. Intercettare tempestivamente i soggetti che accusano questi sintomi prodromici può risultare un efficace strumento di prevenzione, in quanto la somministrazione di terapie neuroprotettive può ritardare l’esordio della malattia o rallentarne la progressione».

Come si diagnostica la malattia di Parkinson?

«Ci pensa il neurologo, visitando il paziente e riscontrando il sintomo cardinale della bradicinesia. Lo si può riscontare nei piccoli passi compiuti e nella contestuale assenza di movimento delle braccia ma anche in una postura un po’ curva e nell’espressione ipomimica del viso. Il paziente può avere o no il tremore caratteristico della malattia: quando c’è, il tremore si manifesta a riposo con i muscoli completamente rilassati per poi scomparire con il movimento. La malattia esordisce inoltre in modo asimmetrico: comincia sempre da un lato e dopo un po’ di tempo può interessare anche l’altro. Se la visita individua il sospetto della malattia occorre sottoporre il paziente a una TC o a una Risonanza magnetica, utili a escludere quei rari casi in cui i sintomi sono rivelatori di altre malattie. Dopodiché l’eventuale risposta positiva alla terapia calibrata sul periodo di uno, due o tre mesi rappresenterà un vero e proprio criterio diagnostico. Non sempre la diagnosi della malattia di Parkinson è facile: di fronte a dubbi importanti ci si può servire di un esame di imaging funzionale: lo Spect cerebrale, che va a legare direttamente un radiofarmaco alla dopamina e ci dice se è presente un’alterazione».

In che modo di manifesta la malattia di Parkinson?

«Nella maggior parte dei casi si articola in tre distinte fasi. Quella iniziale è detta “luna di miele” perché i farmaci a disposizione ci permettono di aumentare la dopamina fino a garantire ai pazienti un’ottima qualità di vita. La fase intermedia registra invece la progressione della malattia e vede comparire le fluttuazioni motorie: periodi di benessere alternati ad altri periodi dal movimento rallentato, nonché la ricomparsa del tremore. Dopo dieci anni o più si entra infine nella fase avanzata: le fluttuazioni motorie diventano sempre più gravi e raggiungono quella situazione “on/off” in cui il paziente alterna lo stato di mobilità a quello di blocco motorio pressoché completo».

Quali sono i farmaci a disposizione dei pazienti?

«Nelle prime due fasi della malattia i farmaci sono tanti, efficaci e in grado di garantire una terapia personalizzata. La scelta della terapia iniziale è fondamentale, soprattutto nei pazienti più giovani, perché può condizionare in modo anche significativo l’evoluzione della malattia. In fase avanzata, il paziente diventa invece molto complicato e deve essere gestito da un’équipe multidisciplinare: neurologo, fisiatra, fisioterapista, dietologo e foniatra. Quando le terapie tradizionali non riescono a migliorare le fluttuazioni motorie, in alcuni casi selezionati si può ricorrere a terapie particolari che a Torino vengono eseguite da molti anni con risultati apprezzabili, in grado di migliorare i sintomi della malattia in modo molto evidente, soprattutto tra i pazienti più giovani».

Quante e quali sono queste terapie così efficaci?

«Sono essenzialmente tre. L’infusione sottocutanea continua per 10-12 ore di un farmaco dopamino-agonista, l’infusione intestinale continua per 10-14 ore di un farmaco direttamente nel duodeno attraverso una Peg, l’intervento di stimolazione cerebrale profonda che prevede il posizionamento di due elettrodi permanenti all’interno del cervello del paziente in una struttura molto piccola ma importante perché responsabile dei sintomi parkinsoniani. In quest’ultimo caso, gli elettrodi vengono collegati a uno stimolatore posto sottocute nella regione pettorale, la stimolazione elettrica continua della regione cerebrale responsabile della fisiopatologia dei sintomi ne produce un evidente miglioramento».