Cosa sono e come vanno curate le malattie infiammatorie croniche dell’intestino


«Riguardano soprattutto persone di età compresa tra i 20 e i 30 anni, sono sempre più diffuse e durano tutta la vita impattando sulla qualità di vita del paziente», spiega il dottor Marco Astegiano, gastroenterologo della Clinica Fornaca. Farmaci biologici e studio del microbioma intestinale potranno dare la risposta a queste e ad altre malattie importanti.

«Riguardano soprattutto persone di età compresa tra i 20 e i 30 anni, sono sempre più diffuse e durano tutta la vita impattando sulla qualità di vita del paziente», spiega il dottor Marco Astegiano, gastroenterologo della Clinica Fornaca. Farmaci biologici e studio del microbioma intestinale potranno dare la risposta a queste e ad altre malattie importanti.

 

«Le malattie infiammatorie croniche dell’intestino, cioè la malattia di Crohn e la rettocolite ulcerosa, riguardano una popolazione prevalentemente giovane, di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Sono sempre più diffuse nella popolazione italiana e, come dice il termine, sono croniche: durano tutta la vita. In più, vanno a impattare in modo significativo sulla qualità di vita del paziente dal punto di vista scolastico, lavorativo, sportivo e di hobby». Lo spiega il dottor Marco Astegiano, gastroenterologo della Clinica Fornaca e responsabile degli ambulatori della Struttura complessa di Gastroenterologia U della Città della Salute e della Scienza di Torino, presidio San Giovanni Antica Sede.

 

Dottor Astegiano, in che modo il medico si occupa di malattie che riguardano pazienti tanto giovani?

«Si tratta di malattie che richiedono estrema attenzione nella terapia, nella gestione dei farmaci e soprattutto nell’empatia, perché è fondamentale convincere i pazienti di tutto ciò che è opportuno fare in considerazione della cronicità della malattia stessa. Le malattie infiammatorie croniche dell’intestino colpiscono fondamentalmente i giovani attraverso sintomi invalidanti: diarrea, dolore addominale, febbre, calo di peso. Richiedono un attento approccio, una valutazione che all’inizio va fatta dal medico di Medicina generale e poi dallo specialista, in particolare il gastroenterologo. Da lì si va agli esami di laboratorio di primo livello, spesso semplici, come esami del sangue e delle feci che possono indicarci i dubbi di una presenza infiammatoria. Quest’ultima va poi cercata con indagini più importanti, tipo la colonscopia, eseguita però da medici esperti e da Centri specifici perché la competenza è fondamentale».

 

Cosa accade dopo aver fatto la diagnosi?

«Il paziente viene preso in carico per tutta la vita. È uno scambio continuo di opinioni con lui e con gli altri colleghi medici. La diagnosi molte volte comporta la collegialità di strutture e di personale medico: le malattie infiammatorie croniche dell’intestino comportano spesso complicanze: malattie dermatologiche, reumatologiche od oculari. Emerge perciò il concetto di multidisciplinarietà: diventa un’autentica “Unit” con il malato al centro e con i medici che devono essere un unicum per trattarlo allo stesso modo, con le indicazioni più corrette, variabili a seconda del momento della malattia, più o meno attiva. Oggi i farmaci biologici offrono una risposta rapida sui sintomi e il paziente può recuperare la sua qualità di vita riprendendo la sua attività lavorativa o sportiva in tempi celeri, tuttavia si tratta di malati richiedenti massima attenzione ogni volta che vengono visti perché può sempre essere una storia diversa, legata alla malattia in remissione o attiva nonché alle possibili complicanze».

 

E se i farmaci non funzionano?

«Se la malattia impatta in modo ancora rilevante occorre cambiare strategia terapeutica. Talvolta l’insuccesso della terapia medica porta a una valutazione chirurgica: il gusto “timing” chirurgico è fondamentale affinché l’intervento sia in elezione e non in urgenza, in quanto la prima condizione offre maggiori possibilità di successo. Purtroppo l’intervento chirurgico, un esempio è quello della resezione di parte dell’intestino, non risolve la malattia, che anzi prosegue nel suo percorso di prima con gastroenterologo, dietologo e altre figure specialistiche. Va comunque sottolineato che i farmaci di oggi permettono una buona qualità di vita, il malato va però convinto a fare la terapia adeguata e gli esami necessari, anche quelli non piacevolissimi come colonscopia, gastroscopia o altri invasivi».

 

In tema di farmaci, il progresso scientifico ha fatto molto per le malattie infiammatorie croniche dell’intestino?

«La storia di queste malattie negli ultimi trent’anni è cambiata in modo radicale. Per i farmaci, ma anche per via delle nuove ipotesi diagnostiche e di causa che oggi riguardano fondamentalmente quattro attori: la genetica, il microbioma intestinale, la permeabilità intestinale e la risposta infiammatoria. Siamo sempre più vicini a individuare la causa scatenante, ma oggi non ce l’abbiamo ancora. Si sta lavorando molto sul microbioma e si pensa che alcuni batteri possono essere legati allo sviluppo della malattia: in un certo qual modo potrebbe essere questo il momento determinante, magari slatentizzato da agenti infiammatori che modificano l’ambiente intestinale favorendo una reazione infiammatoria resa poi cronica da un meccanismo probabilmente geneticamente determinato».

 

Si tratterebbe di un’autentica rivoluzione, in grado di cambiare i percorsi di diagnosi e cura.

«Sicuramente è oggi l’aspetto più interessante della Gastroenterologia. Lo studio di queste malattie e lo studio del microbioma sono il futuro della ricerca medica perché il microbioma potrebbe essere legato anche al tumore del colon, alle malattie autoimmuni legate alla tiroide, alle malattie neurologiche come il Parkinson o l’Alzheimer, a steatosi e steatoepatite, a certe forme allergiche. Potrebbero essere tutte legate a questa alterazione del microbioma intestinale. Microbioma che è legato ai nostri primi mille giorni di vita: parto naturale o cesareo? allattamento naturale o artificiale? uso di antibiotici? Presenza di gastroenterite? Potrebbero essere condizioni ambientali che modificano il microbioma e quindi predispongono a certe malattie. È nei primi tre anni della nostra vita che si gioca buona parte di questo microbioma sano».